Tra le ultime novità approvate dal governo Meloni abbiamo il poco gradito ritorno dei voucher come strumento di pagamento per lavori definiti “occasionali”.
Questa vergognosa forma di sfruttamento ha una lunga storia (vedi UN 11 marzo 2017). Istituiti formalmente con la legge Biagi (governo Berlusconi, D. lgs. 276/2003) che li riservava alla retribuzione di lavori “di natura meramente occasionale” di soggetti marginali (“lavoretti” di studenti, pensionati, casalinghe, disoccupati o disabili) hanno trovato per la prima volta effettiva applicazione solo nel 2008 (governo Prodi) quando sono stati introdotti sperimentalmente per prestazioni occasionali di tipo accessorio nel comparto delle vendemmie. L’obiettivo dichiarato era semplice: creare una forma agile di pagamento facendo emergere nel contempo il lavoro nero.
Di fronte al successo straripante (mezzo milione di voucher venduti in pochi mesi) il loro uso è stato rapidamente esteso con una serie di disposizioni legislative: la riforma Fornero (leggi 92 e 134 del 2012), la legge 99 del 2013 (governo Letta) e il Jobs Act (governo Renzi, D. lgs. 81/2015). Insomma governi di destra e di “sinistra” hanno, tanto per cambiare, collaborato per estendere in modo esponenziale questa possibilità di sfruttare in modo estremamente flessibile e legale la manodopera (qui veramente possiamo parlare di lavoro “usa e getta”). Il sistema era semplice: il datore di lavoro comprava una serie di voucher del valore di 10 euro ciascuno (comprensivo di 2,5 euro di trattenute INPS e INAIL) e li usava come pagamento orario delle prestazioni lavorative. Il lavoratore poi cambiava i voucher (anche in tabaccheria) ottenendo in cambio i 7,5 euro netti. Fin troppo semplice: alla fine del 2015, secondo dati INPS, ben 1.400.000 lavoratori venivano retribuiti con questo sistema (e il 37% di loro non aveva altre forme di reddito). Da notare che le trattenute previdenziali erano del tutto insufficienti a garantire la benché minima copertura pensionistica.
Nel 2017, di fronte a una diffusione ormai senza controllo di questo strumento (dal 2008 al 2017 erano stati venduti complessivamente 433 milioni di buoni lavoro), gli stessi ricercatori INPS dovettero certificare il fallimento “delle (irrealistiche) aspettative del legislatore […] che il voucher servisse per l’emersione del [lavoro] nero”; al contrario i dati a disposizione fanno pensare (scrivevano i ricercatori) “più che a un’emersione, a una regolarizzazione minuscola (parzialissima) in grado di occultare la parte più consistente di attività in nero. In questo senso si può pensare ai voucher come la punta di un iceberg: segnalano il nero, che però rimane in gran parte sottacqua”.
Le proteste furono tali da indurre il governo Gentiloni ad abolire i voucher (D.L. 28/2017) per ripristinare però (oplà) poco dopo forme di retribuzione occasionale molto più ridotte e controllate (D.L. 50/2017). Nella forma attuale, su cui ha legiferato anche Conte (decreto dignità, 87/2018), questa forma di pagamento può essere utilizzata solo dalle famiglie (attraverso il “libretto famiglia”) per retribuire lavoretti come il baby-sitting e dalle aziende con meno di 5 dipendenti (contratto PrestO).
Ora Meloni annuncia il ritorno, con la legge di bilancio per il 2023, dei voucher nella loro forma più selvaggia con l’obiettivo di avere “uno strumento utile per regolarizzare il lavoro stagionale e quello occasionale” da accompagnare (bontà sua) a “controlli molto rigidi” per “evitare storture”.
Ancora una volta solo la mobilitazione potrà bloccare un nuovo deterioramento delle condizioni di lavoro.
Mauro De Agostini